di Marco Rotondi

Neurosystemics n° 11/2018


Nel paese del “chi fa da sé, fa per tre” forse non ci si dovrebbe meravigliare se i partiti si dividono, le coalizioni si spaccano, gli accordi non si chiudono; spesso situazioni simili si verificano anche in azienda o in altre organizzazioni pubbliche; anzi a dire il vero cose analoghe si stanno verificando sempre più spesso anche fuori dall’Italia (UE, USA, …), tanto che alcuni studiosi stanno identificando questi fatti come segnali di un trend epocale delle culture industriali occidentali.

Quelle che stiamo attraversando sono certo circostanze difficili e molto complesse da risolvere ma di facile diagnosi: carenza di leadership.

Recentemente, mentre stavo partecipando ad una riunione di un comitato scientifico, mi è capitato di affrontare questo tema con una persona che ricopriva anche una carica istituzionale politica e non condivideva questa mia diagnosi; per lei, anzi, di leadership ce n’è fin troppa!

Il suo diverso modo di vedere le cose mi ha fatto riflettere ancora una volta sulla grande ambiguità e “mitologia” che avvolge la parola “leadership”; non a caso su di essa sono stati scritti più di mille libri (riferendosi solo alla lingua italiana) e dalla ricerca su google di questa parola si ricavano 218 milioni di risultati. Non posso quindi pensare di poter risolvere qui io il problema in queste poche righe.

Vorrei però cercare di evidenziarne almeno un aspetto che per me è fondamentale, talmente fondamentale che spesso lo ritengo automaticamente intrinseco al concetto stesso di leadership così che, quando invece non vi si ritrova, quasi me ne stupisco: la leadership è “qualcosa” che viene riconosciuto dagli altri che vedono nel leader la persona più utile per consentire al gruppo a cui appartengono di raggiungere la meta desiderata e quindi sopravvivere.

Per questo si dice non c’è team senza un leader, perché senza una persona, che di volta in volta sia sentito da tutti i componenti di un gruppo come punto di riferimento/comprensione per poter raggiungere un certo obiettivo in un certo momento, il team non riesce a sopravvivere.

Se la guardiamo così, allora la leadership esce dal mito e diventa un indispensabile strumento di utilità e servizio per il team; acquisisce un significato etico: la guida è fatta per il bene del team non per il proprio vantaggio/interesse o per quello dei propri amici.

Credo che attualmente ci sia in giro molta voglia di leadership, cioè di “fare” il leader, ma molta poca capacità e competenza per essere leader.

La leadership non si compra e non si può costringere nessuno a riconoscercela: questo invece può avvenire per “cose” come il potere, l’autoritarismo, la direttività, l’essere “soli al comando” con tutte le varie sfumature che accentuano più o meno l’esercizio personale e indiscusso del potere fino ad arrivare alla vera e propria dittatura. E questa costituisce l’esatta antitesi della costruzione e conduzione di un team.

Ma forse è proprio questo il vero punto epocale: difronte alle crescenti complessità dei mercati e dei problemi, che le nostre organizzazioni si trovano a dover affrontare nei diversi settori in cui operano, occorrono competenze, professionalità, esperienze molteplici e variegate; queste difficilmente sono riscontrabili in una unica persona per cui risulta indispensabile dover ricorrere a team di lavoro; ma questi non si costruiscono con una disposizione organizzativa per quanto ben fatta; serve far scattare la “chimica” di un gruppo per trasformarlo in un vero team e in questo complesso processo di reazione-costruzione servono leader non dittatori ecco il punto.

Se per leadership si intende una persona che si impone (o si vorrebbe imporre) per autorità o potere (organizzativo, economico, politico, …) allora effettivamente se ne può trovare parecchia, ma se invece intendiamo la capacita di creare un’integrazione di intenti e sforzi per raggiungere mete desiderate e condivise, allora temo che se ne possa trovare molto meno e anzi in alcuni settori (come forse la politica) ce ne sia davvero poca.

Basti osservare per esempio come alcune persone che vengono definite dai giornali o dalle televisioni leader politici siano in realtà dei veri follower, ricorrendo di continuo a sondaggi mirati per sapere cosa la gente preferisca riguardo ad un determinato tema per poi proclamare con successo che anche loro la pensano così; siamo lontani anni-luce dai veri grandi leader, capaci di aprire strade nuove e risolutive a volte anche contro le percezioni iniziali dei gruppi o delle popolazioni che intendevano guidare (si pensi ad esempio a Martin Luther King, John Kennedy o Nelson Mandela).

Fare il dittatore o il follower è abbastanza facile, essere un leader è senz’altro più difficile.

Del resto l’utilizzo dei team nelle organizzazioni sta divenendo sempre più strategico e diffuso; i team divengono sempre più numerosi, multiprofessionali, multidisciplinari, multiculturali e quindi sempre più complessi.

L’attrezzatura culturale e metodologica per poterli guidare risulta conseguentemente sempre più articolata e complessa e spesso non è disponibile a chi si trova, per posizione o incarico, a dover svolgere tale compito.

La competenza delle organizzazioni nel saper costruire, gestire, guidare, motivare i team di lavoro, diminuendo così al minimo le dissipazioni entropiche e gli inutili sprechi interni di energie, sta divenendo una delle fonti più solide di vantaggio competitivo: si fa prima, meglio e con maggior soddisfazione.

L’aggettivo “etica” accompagnato alla parola “leadership” non dovrebbe allora essere intesa come elemento caratterizzante di un certo modo d’intenderla e praticarla, quanto piuttosto come semplice elemento esplicativo di una qualità essenziale e determinante della natura stessa della vera leadership per cui:

leadership = leadership etica.

Ci piace immaginare (o sperare) che anche la politica possa imparare questa lezione così come stanno facendo tante organizzazioni di successo.