di Marco Rotondi

Neurosystemics n° 12/2018


Spesso la diagnosi iniziale che viene proposta dal CEO, quando si inizia un percorso di empowerment di un organizzazione, è la non adeguatezza dei propri collaboratori. La casistica è molto ampia: si va dalle insufficienti competenze tecniche all’assenza di senso di responsabilità, dall’incapacità di lavorare in team alla scarsa propositività, dalla poca flessibilità alle insufficienti doti relazionali, …

Lungi da mettere in discussione le varie diagnosi raccolte (sicuramente ricche anche di riscontri oggettivi), vorrei provare a guardare le situazioni organizzative sopra accennate anche da un altro punto di vista, meno puntuale e, diciamo, più sistemico. Certo so bene, per esperienza diretta personale, quanto sia più facile vedere le cose con lucidità quando si è fuori da un’organizzazione che quando vi si lavora quotidianamente immersi dentro. I CEO hanno quindi comunque e sempre tutta la mia comprensione, sostegno e solidarietà.

Ma proviamo ora ad approfondire una visione più distaccata della cosa. Superata la prima ovvia domanda (da quanto tempo il CEO è arrivato nell’organizzazione?), possiamo passare ad esaminare lo stato di equilibrio in cui ci si trova. Possiamo allora forse notare come spesso “un capo” sia portato a scegliersi (o a conservarsi), consapevolmente o inconsciamente, la propria squadra di collaboratori in modo che risulti più funzionale, non tanto al raggiungimento degli obiettivi della propria organizzazione, quanto alle proprie capacità e stili di conduzione di un team. Se la vediamo così, allora, possiamo incontrare almeno otto diverse situazioni; proviamo ad esaminarle una per una a seconda dello stile e del livello delle competenze di conduzione possedute dal leader.

1.One to one. Numerosi capi preferiscono ancora gestire i collaboratori nel faccia a faccia, nel “one to one”; il loro modello di riferimento è “un uomo solo al comando”; non provano quindi a fare un salto qualitativo ed a condurre tutti i collaboratori “insieme” per farne un unico team; probabilmente affrontano tipi di business molto semplici o non si sentono capaci di creare e gestire una squadra né hanno voglia di imparare a farlo. Non c’è allora da meravigliarsi troppo se i collaboratori vanno ognuno per la propria strada e non si sentono responsabili più di tanto dei risultati globali.

2. Accentratore. Il tipo di capo che si crede insuperabile; come fa le cose lui non le fa nessuno; non importa se si tratta di progettare un nuovo impianto o di scegliere la pizzeria dove andare a mangiare insieme; incarna il valore del “chi fa da sé, fa per tre” dimenticandosi che da soli non si riesce neanche a sollevare un tavolo. Pensa di non avere alcun bisogno degli altri, di essere capace di fare tutto da solo, e che, avendo già tante cose da fare, non può perdere tempo anche con la squadra; non capisce così che il team non è il problema ma la soluzione. Finché, infatti, i problemi da risolvere, o le mete che vengono poste, sono semplici e banali può andar bene operare anche senza un team, ma quando i problemi diventano complessi e difficili, allora servono molteplicità di saperi e diversità di specializzazioni e professionalità da poter mettere in campo insieme; ecco perché il passaggio al lavoro in team risulta oggi quasi obbligato, ma questo tipo di leader non vuole farlo. Conseguentemente i collaboratori risultano spesso poco collaborativi fra loro, scarsamente proattivi, con un basso senso d’appartenenza, talvolta focalizzati a evidenziare gli sbagli che vengono fatti dall’organizzazione (cioè dal capo).

3. Insicurezza nel ruolo. Alcuni capi, specie di prima nomina, decidono di imboccare la strada del team, ma temono di non esserne all’altezza e temono di non ricevere un adeguato riconoscimento; patiscono particolarmente i membri del team con maggiore anzianità ed esperienza individuandoli come possibili minacce alla loro leadership; per questo uno dei loro primi tipici interventi (invece di allearsi e valorizzarli come risorse di riferimento per tutti) è quello di “manovrare nei corridoi” per cercare di rendere marginali i membri senior o di indurli ad abbandonare in modo da avere una squadra tutta formata da giovani o “neoinseriti” ugualmente inesperti quanto lui e quindi più facilmente influenzabili. Risulta pertanto facile che, in questo caso, i collaboratori non possiedano (ancora) tutte le competenze tecniche o relazionali importanti per il ruolo che ricoprono.

4. Incompetenza sul compito. Quando i capi si sentono insicuri delle loro competenze tecniche e della loro capacità di individuare la strada migliore per raggiungere gli obiettivi, allora, in genere, virano verso la paura di sbagliare e dell’evidenza degli sbagli; non si sentono pienamente all’altezza e per il proprio team scelgono spesso persone di basso profilo, persone che non creino preoccupazioni di gestione, che non “diano problemi”, degli “yesman” o “yeswomen”; così facendo cercano meccanismi per essere rassicurati, rinforzati ed aumentare così la propria autostima; le persone di cui si circondano sono quindi incapaci di dissentire, di criticare (positivamente) i piani di lavoro o di fare proposte alternative (e potenzialmente migliori della sua); questi collaboratori seguono il potere e l’autorità di per sé o per poterne trarre i maggiori benefici possibili o per insicurezza, incapacità personali, poca voglia di impegnarsi o prendersi responsabilità alcuna (infatti sarà sempre il capo che ha indicato la strada ad aver sbagliato…).

5. Paura del confronto. Quando si è consapevoli della fragilità della propria posizione si cerca di consolidarla con scelte e meccanismi che premiano la fedeltà, le conoscenze, l’appartenenza alla stessa famiglia, alla stessa rete di amici, associazione, partito, … , rafforzandosi così grazie alla leva strumentale dell’affettività e dell’appartenenza comune; è la classica cultura di tipo “mafioso” dove è la famiglia che garantisce che il membro non tradirà. In questi contesti non c’è spazio per la sana competizione interna o esterna, non c’è spinta a far le cose meglio, perché il criterio valorizzato non è il merito, l’essere bravi ma il “potersi fidare”; qui si fa carriera per anzianità, per rispetto delle regole, per favori fatti, per scambi, per aver resistito a lungo in situazioni difficili (alcune di queste situazioni sono oggi, ahimè, caratteristiche anche di alcuni settori dell’università italiana).

6. Paura di perdere il controllo, il potere. Questi tipi di capi conoscono bene l’importanza di avere collaboratori bravi e competenti e utilizzano anche riunioni di team per condividere mete comuni e creare un senso d’appartenenza più ampio, ma vogliono avere sempre un controllo assoluto su tutto; spesso le riunioni si riducono quindi a semplici monitoraggi dello stato d’avanzamento dei vari progetti di cui sono responsabili i vari membri del team; per paura poi di non avere tutte le informazioni o che qualcosa gli venga nascosto deliberatamente, vanno in giro a far domande e raccolgono notizie da tutti per poterle incrociare poi con i dati a disposizione ed essere sicuro che non ci siano “cospirazioni” in atto; in pratica vivono i momenti di team male; nel senso che, non potendone fare a meno, ne fanno uso, ma sentono il momento dell’incontro di gruppo come difficile, come una situazione pericolosa e foriera di possibili scontri e perdite di potere e che, per questo, necessita di grande concentrazione e controllo; spesso, allora, diventano molto rigidi nel far rispettare le proprie regole e i propri ritmi in modo da non perdere mai il controllo della situazione e del processo; talvolta lavorano anche secondo l’antico adagio “divide et impera”, mettendo così i componenti della squadra l’uno contro l’altro o creando competizioni interne fittizie e nocive. Infatti, data l’elevata competenza dei propri collaboratori, hanno sempre paura che qualcuno li possa soppiantare. Queste situazioni sono caratteristiche e diffuse in ambienti (come per esempio quelli tecnologicamente avanzati) dove si fa carriera non tanto in base alle competenze relazionali o di guida del processo, ma solo in base alla leadership tecnica (cioè di contenuto); un collaboratore riconosciuto da tutti come il più bravo tecnicamente può allora facilmente diventare una minaccia, un possibile rimpiazzo, perfino un’alternativa preferibile all’attuale capo .

7. Primato alle relazioni. Questi capi conoscono bene il valore aggiunto che i team sono capaci di creare e la forza che una squadra di vertice affiatata sa trasmettere a tutta la propria organizzazione; sanno che uno dei loro compiti principali consiste nel riuscire a tirar fuori il meglio dalle persone, essere capace di mobilitarle e galvanizzarle verso gli obiettivi, fargli sentire che solo loro uniti possono fare la differenza fra la vittoria o il fallimento, fra un lavoro mediocre e un risultato indimenticabile, fra una prova scialba ed un evento insuperabile. Per questo dedicano tempo e attenzione alla creazione della squadra ed alla sua manutenzione e miglioramento continuo; anzi di questo fanno uno dei loro punti di fora principali; scelgono allora i propri collaboratori tenendo conto che i loro stili di lavoro in team siano compatibili o complementari (secondo uno dei vari modelli di High Performance Team esistenti[1]) o semplicemente in base al possesso di solide competenze relazionali. In mancanza di questo requisito preferiscono persone un po’ meno competenti tecnicamente ma più solide nelle competenze relazionali e di processo; preferiscono per esempio come direttore di progettazione, non il miglior tecnico progettista che però non sa gestire le persone e tanto meno un team, ma un progettista un po’ meno bravo e competente tecnicamente che però è abile relazionalmente e nel gestire le dinamiche di gruppo. Il pensiero di questi capi, che nella scelta dei propri collaboratori danno la priorità alle competenze soft, è che ci vuole meno tempo e fatica ad insegnare ed acquisire le competenze tecniche rispetto a quanto occorre fare per sviluppare quelle manageriali nelle singole persone e per creare fra essi la “chimica” giusta che fa nascere un vero team.

8. Primato alle competenze. Quando il tempo è poco allora la situazione si complica. Non c’è spazio sufficiente per formare le competenze tecniche che servono per poter risolvere subito e con successo i problemi che occorre risolvere. Minore è il tempo a disposizione, più complessi e difficili diventano i problemi, maggiori devono essere le competenze già disponibili nella squadra; questo fatto spesso non permette di poter porre attenzione ad altri parametri importanti (come scegliere le persone in base ai loro stili di lavoro); spesso, quando c’è poco tempo, occorre andare diretti sulle competenze tecniche scegliendo i migliori che ci sono, magari chiamando a lavorare nel team anche ex-avversari, sapendo però bene che non sarà poi per niente facile gestire tutte queste “prime donne” insieme, tutti questi “rivali” in un’unica squadra; sarà anzi una grande sfida prima di tutto per chi dovrà condurre questo team. Ma ai veri leader le sfide con sé stessi sono quelle che piacciono di più. Quando l’operazione riesce, infatti, siamo davanti ad un vero “Dream Team”, gruppi che consentono alle loro organizzazioni di raggiungere risultati incredibili. Situazioni come queste sono caratteristiche di processi di change management veloci, di turnaround, di squadre di governo politico come per esempio quelle create da Abramo Lincoln o da Barack Obama.

 

A questo punto non possiamo fare a meno di aprire una parentesi e notare come gli Stati Uniti con il recente cambiamento del loro Potus (President Of The United States) siano bruscamente retrocessi dall’essere governati da un leader di livello 8 (Obama) ad uno di livello 2 (Trump). I problemi molto probabilmente non saranno lievi né per gli USA né per il resto del mondo[2]. Non è infatti un caso, ma pura incapacità se l’attuale inquilino della casa Bianca ha già cambiato e sostituito venticinque[3] dei suoi più diretti collaboratori (scelti precedentemente personalmente da lui stesso) e si trova meglio con un dittatore solitario come Kim Jong-un (vedi recente incontro a Singapore[4]) piuttosto che con i leader delle democrazie occidentali ed europee (vedi recente riunione del G7 in Canada[5]).

 

Dopo aver tracciato una schematizzazione dei vari stili di leadership correlandoli al tipo di squadra di collaboratori che in qualche modo produce, è opportuno fare un ulteriore passo in avanti nel percorso di analisi distaccata delle diverse situazioni sopra illustrate. Ognuno di noi, probabilmente, avrà provato a collocarsi in una delle caselle descritte e si sarà riconosciuto in qualcuna delle casistiche raccontate; è allora utile osservare come gli otto stili rilevati rappresentino otto modalità di “essere capi”. In genere, le persone ne utilizzano più di una anche se, magari, ne agiscono una di esse più frequentemente delle altre (stile preferenziale di conduzione di un team). Nell’esempio Trump è stato osservato praticare gli stili 1 (primi giorni d’insediamento), 2 (quasi sempre), 4 (licenziamento dei collaboratori che gli dicevano “no”), 5 (inserimento del genero e di compagni d’affari nel suo staff), 6 (specialmente con i leader europei), anche se quello prevalente, più frequentemente utilizzato e quindi più rappresentativo del suo modo di essere capo, è indubbiamente il tipo 2.

Le otto tipologie descritte non rappresentano allora tanto e solo otto tipi di capi, ma indicano anche le diverse modalità che spesso vengono giocate da tutti. Le domande da porsi diventano allora:

  • quali di queste modalità utilizzo ? e qual’è quella preferenziale che uso più spesso ?
  • E soprattutto: “mi ritrovo (quasi) sempre ad interpretare uno stesso stile?
  • E in questo caso: “è lo stile 7 o 8 ?”

Se la risposta all’ultima domanda è si, allora va bene; altrimenti mi ritrovo ad occupare una casella che può diventare pericolosa per me e la mia organizzazione, proprio come Trump! Del resto, come segnala Jim Collins nel suo libro del 2001 (Good to Great), dove racconta i risultati di una sua ricerca, statisticamente i CEO più performanti attribuiscono il proprio successo ai propri collaboratori e alla fortuna, i fallimenti a sé stessi.

In conclusione, quindi, ogni leader ha il team che si merita e l’organizzazione ne subirà le conseguenze: apertura di nuove opportunità e grandi risultati o avvio di minacce e conflitti e inizio della decadenza.

 

[1] Vedi per esempio il modello TAM® (Team Al Meglio®) di IEN
[2] Vedi per esempio “Se l’avversario dell’Occidente abita alla Casa Bianca” di Ugo Tramballi, Il Sole 24 ore, 9 giu 2018, al link
[3]  “You are fired”: tutti gli uomini licenziati da Trump sotto la sua amministrazione, link
[4] Incontro Trump-Kim a Singapore presso hotel Capella sull”isola di Sentosa, 12 giu 2018.
[5] Il 44º vertice del G7 che si è svolto a La Malbaie in Québec, Canada l’8 e il 9 giugno 2018; la riunione è stata guidata dal Primo Ministro canadese Justin Trudeau.