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aprile 2014

di Stefano Falletti*

L’atteggiamento riguardo alla morte è profondamente mutato in Italia negli ultimi cinquant’anni, certo per ragioni storiche e culturali complesse, ma che comunque hanno portato alla rimozione della morte come evento sociale rendendola una morte privata e che peraltro viene anche delegata ai professionisti.

Chi muore oggi lo fa quasi di nascosto. Non si parla né con la persona né con i suoi familiari di quello che sta accadendo, per una forma sottile di discrezione, per “rispetto”. Si tende a fare finta di niente, scivolando facilmente in quella che è definita “la congiura del silenzio” (Grassi et al., 2003).

E’ vero che di fronte alla morte imminente si possono generare nel malato un insieme di emozioni e di reazioni comportamentali complesse. “Perché io?” è la domanda che spesso segue e che viene accompagnata da sentimenti di collera scaricata su medici, infermieri, familiari e anche su Dio. D’altra parte anche la famiglia, come il malato, sperimenta, nel corso della malattia, tutta una serie di emozioni intense: sentimenti di paura, rabbia, impotenza, depressione, ansia sono del tutto normali e comprensibili, sia nel paziente che nei suoi familiari. Tuttavia, l’intensità dei sentimenti assume spesso un valore negativo agli stessi occhi dei familiari spingendoli a reprimere, negare, anestetizzare i propri e gli altrui vissuti emotivi. Questo controllo emozionale da parte di malato e familiari, si traduce in un incremento del reciproco senso di solitudine che aumenta, piuttosto che ridurre, la distanza emotiva all’interno della famiglia (Kübler-Ross, 1969).

 “Il dolore fisico è solo una parte nel dolore di un uomo a cui è negata la speranza di guarire fisicamente; v’è anche un altro dolore, assai più inteso, spirituale, che diventa domanda sul perché di ciò che accade” (Saunders). Cicely Saunders, creatrice del primo Hospice, ha contribuito con il suo lavoro sulla “sofferenza totale” a sensibilizzare gli operatori sull’importanza dell’approccio olistico dell’individuo malato integrando la parte somatica del dolore a quella psicologica, spirituale e relazionale e gettando le basi al moderno approccio palliativo alla cura della persona nella sua globalità.

L’attenzione si sposta quindi dal corpo all’insieme dell’individuo (soma e psiche) e mira al miglioramento della Qualità di Vita del paziente (Quality of life (QoL)): in questo senso l’approccio al malato diventa integrato, o meglio “globale” (Integrated Global Approach (IGA)), basato sulla pluridisciplinarità che garantisce il supporto psicologico, relazionale, sociale e spirituale.

Questo è il tipo d’intervento che si realizza all’interno degli Hospice, strutture nate con l’intento di accompagnare i malati nelle ultime fasi di vita. E al fine di migliorare le competenze del lavorare in questi specifici Team multidisciplinari l’Istituto Europeo di Neurosistemica ha sviluppato un workshop formativo dedicato alle risorse che operano all’interno degli Hospice o si occupano di assistenza domiciliare come professionisti o come volontari e che sono quindi particolarmente esposti al burn out.

Il workshop, della durata di due giornate, affronta anche il tema dell’ansia della morte, particolarmente sentito per chi opera quotidianamente con il morente e comprende la discussione di uno studio effettuato dall’Università di Padova sui volontari del fine vita.

*Stefano Falletti, formatore, coach, senior consultant IEN, ha realizzato una ricerca per conto dell’Università di Padova intervistando 72 volontari impegnati nell’end of life.