di Edgar Morin

Neurosystemics© n° 13/2019


Dal XVI secolo siamo entrati nell’era planetaria e, dalla fine del XX secolo, siamo nella fase della mondializzazione. La mondializzazione, fase attuale dell’era planetaria, significa innanzi tutto, come ha giustamente sottolineato il geografo Jacques Lévy, “l’emergenza di un oggetto nuovo, il mondo in quanto tale”. Ma più siamo presi dal mondo, più il mondo ci risulta difficile da comprendere. Nell’epoca delle telecomunicazioni, dell’informazione, d’Internet, siamo sommersi dalla complessità del mondo e le innumerevoli informazioni sul mondo soffocano le nostre possibilità d’intelligibilità. Si potrà isolare un problema vitale per eccellenza, che subordini tutti gli altri problemi vitali? Ma questo problema vitale è costituito dall’insieme dei problemi vitali, ossia dall’intersolidarietà complessa di problemi, antagonismi, crisi, processi incontrollati. Il problema planetario è un tutto che si nutre di ingredienti multipli, conflittuali, crisici, che li ingloba, li supera e, a sua volta, li nutre.

Ciò che aggrava la difficoltà di conoscere il nostro mondo è il modo di pensare che ha atrofizzato in noi, anziché svilupparla, la capacità di contestualizzare e globalizzare, mentre l’esigenza dell’era planetaria è di pensare la sua globalità, la relazione tutto-parti, la multidimensionalità, la complessità. E’ la complessità produttrice/distruttrice delle reciproche azioni delle parti sul tutto e del tutto sulle parti che costituisce un problema. Abbiamo quindi bisogno di concepire l’insostenibile complessità del mondo, nel senso che dobbiamo considerare allo stesso tempo l’unità e la diversità del processo planetario, le sue complementarità e, insieme, i suoi antagonismi.

Il pianeta non è un sistema globale, ma un vortice in movimento. Esso richiede un pensiero policentrico capace di tendere all’universalismo non astratto, ma consapevole dell’unità/diversità umana, e richiede un pensiero policentrico nutrito dalle culture del mondo. Questo è la finalità dell’educazione che, nell’era planetaria, deve operare per l’identità e la coscienza terrestre.

La storia umana è cominciata con una diaspora planetaria su tutti i continenti; poi, a partire dai tempi moderni, è entrata nell’era planetaria della comunicazione fra tutti i frammenti della diaspora umana. La diaspora umana non ha prodotto scissioni genetiche: pigmei, neri, gialli, indiani, bianchi appartengono alla stessa specie, dispongono degli stessi caratteri fondamentali d’umanità. Ma ha prodotto una straordinaria diversità di lingue, di culture, di destini, fonte di innovazioni e di creazioni in tutti i campi.

Il tesoro dell’umanità è nella sua diversità creatrice, ma la fonte della sua creatività è nella sua unità generatrice.

Alla fine del XV secolo europeo, la Cina dei Ming e l’India Moghul sono le civiltà più importanti del globo. L’Islam, in Asia e in Africa, è la religione più diffusa della Terra. L’Impero ottomano – che dall’Asia si è espanso nell’Europa orientale, ha annientato Bisanzio e ha minacciato Vienna  – diviene una grande potenza d’Europa. L’impero inca e l’impero azteco regnano sulle Americhe, e Cuzco, così come Tenochtitlan, superano per popolazioni, monumenti e splendori Madrid, Lisbona, Parigi, Londra, capitali di giovani e piccole nazioni dell’Occidente europeo. Eppure, a partire dal 1492, sono queste giovani e piccole nazioni che si lanciano alla conquista del globo, e attraverso l’avventura, la guerra, la morte, danno vita all’era planetaria che mette ormai in comunicazione i cinque continenti nel bene e nel male. La dominazione dell’Occidente europeo sul resto del mondo provoca enormi catastrofi di civiltà, terribili schiavitù.

Così, l’era planetaria si apre e si sviluppa attraverso e con la violenza, la distruzione, la schiavitù, lo sfruttamento feroce delle Americhe e dell’Africa. I bacilli e i virus dell’Eurasia si scagliano sulle Americhe provocando ecatombi, disseminando morbillo, herpes, influenza, tubercolosi, mentre dall’America il treponema della sifilide passa di sesso in sesso fono a Shanghai. Gli europei importano il mais, la patata, il fagiolo, il pomodoro, la manioca, la patata dolce, il cacao, il tabacco venuti dalle Americhe. Portano in America i montoni, i bovini, i cavalli, i cereali, le viti, gli ulivi e le piante tropicali, il riso, l’igname, il caffè, la canna da zucchero. La planetarizzazione si sviluppa nei vari continenti con l’approdo della civiltà europea, delle sue armi, delle sue tecniche, delle sue concezioni, in tutte le sue agenzie, in tutti i suoi avamposti, in tutte le sue zone di penetrazione. L’industria e la tecnica hanno uno sviluppo economico, lo sviluppo che nessuna civiltà ha ancora conosciuto.

Lo sviluppo economico, lo sviluppo delle comunicazioni, il coinvolgimento dei continenti soggiogati nel mercato mondiale determinano formidabili flussi migratori che saranno amplificati dalla crescita demografica(1) generalizzata. Nella seconda metà del XIX secolo, ventuno milioni di europei hanno attraversato l’Atlantico verso le due Americhe. Flussi migratori si producono anche in Asia, dove i cinesi s’insediano come commercianti in Tailandia, a Giava e nella penisola malese, s’imbarcano per la California, la Colombia Britannica, il Nuovo Galles del Sud, la Polinesia, mentre gli indiani si stabiliscono nel Natal e in Africa orientale. La planetarizzazione dà origine nel XX secolo a due guerre mondiali, a due crisi economiche mondiali e, dopo il 1989, alla generalizzazione dell’economia liberale chiamata mondializzazione. L’economia mondiale è sempre di più un tutto interdipendente: ciascuna delle sue parti è divenuta dipendente dal tutto e il tutto, a sua volta, subisce le perturbazioni e i rischi che coinvolgono le parti. Il pianeta si è ristretto. A Magellano sono stati necessari tre anni per fare il giro del mondo per mare (1519-1522). Un ardito viaggiatore del XX secolo ha impiegato ottanta giorni per fare il giro della Terra, utilizzando strade, ferrovia e navigazione a vapore. Alla fine del XX secolo, il jet compie il giro del mondo in ventiquattro ore, Ma, soprattutto, tutto è istantaneamente presente da un punto del pianeta all’altro con la televisione, il telefono, il fax, internet…

Il mondo diviene sempre più un tutto. Ciascuna parte del mondo fa sempre più parte del mondo, e il mondo in quanto tale è sempre più presente in ciascuna delle sue parti. Ciò si verifica non solo per le nazioni e i popoli, ma anche per gli individui. Come ciascun punto di un ologramma contiene l’informazione del tutto di cui fa parte, così anche ogni individuo riceve o consuma le informazioni e le sostanze che arrivano da tutto l’universo.

Così l’europeo, per esempio, si sveglia ogni mattina accendendo la sua radio giapponese e da essa riceve gli eventi del mondo: eruzioni vulcaniche, terremoti, colpi di Stato, conferenze internazionali gli arrivano mentre sorseggia il suo tè di Ceylon, dell’India o della Cina, a meno che non sia un caffè di qualità moka dell’Etiopia o arabica dell’America Latina; indossa il suo maglione, i suoi slip e la sua camicia di cotone dell’Egitto e dell’India; veste giacca e pantaloni di lana d’Australia, lavorata a Manchester e poi a Roubaix-Tourcoing, oppure un giubbotto di cuoio venuto dalla Cina, indossato sopra jeans di stile americano, il suo orologio è svizzero o giapponese. Gli occhiali sono di scaglie di tartaruga equatoriale. Può trovare in inverno sulla sua tavola le fragole e le ciliegie dell’Argentina e del Cile, i fagiolini freschi del Senegal , gli avocado o gli ananas dell’Africa, i meloni della Guadalupa. Ha bottiglie di rhum della Martinica, di vodka russa, di tequila messicana, di bourbon americano. Può ascoltare a casa sua una sinfonia tedesca diretta da un direttore d’orchestra coreano, oppure assistere davanti allo schermo del televisore a La Bohème con la nera Barbara Hendricks nella parte di Mimì e lo spagnolo Placido Domingo in quella di Rodolfo.

Mentre l’europeo vive nel suo circuito planetario di comfort, un grandissimo numero di africani, asiatici, sudamericani sono in un circuito planetario di miseria e subiscono, nella vita quotidiana, i contraccolpi del mercato mondiale che influenzano le quotazioni del cacao, del caffè, dello zucchero, delle materie prime prodotte dai loro paesi. Sono stati cacciati dai loro villaggi da processi mondializzati originati dall’Occidente, in particolare dai progressi della monocultura industriale, contadini autosufficienti sono diventati abitanti suburbani in cerca di salario; i loro bisogni sono ormai tradotti in termini monetari. Aspirano alla vita di benessere fatta loro sognare dalle pubblicità e dai film occidentali. Usano stoviglie di alluminio o di plastica, bevono birra e coca-cola. Dormono su pezzi di polistirolo recuperati non si sa come e portano t-shirt stampate all’americana. Danzano su musiche sincretiche dove i ritmi delle loro tradizioni entrano in un’orchestrazione venuta dall’America. Così, nel bene e nel male, ogni essere umano, ricco o povero, del Sud o del Nord, dell’Est o dell’Ovest porta in sé, senza saperlo, l’intero pianeta.

La mondializzazione è nel contempo evidente, subcosciente, onnipresente.

La mondializzazione è certamente unificatrice, ma va subito aggiunto che è anche conflittuale nella sua essenza. L’unificazione mondializzante è sempre più accompagnata dal proprio negativo, che essa produce come controeffetto: la balcanizzazione. Il mondo diviene sempre più uno, ma, nello stesso tempo, diviene sempre più diviso. Paradossalmente, è l’era planetaria stessa che ha permesso e favorito il frazionamento generalizzato in stati-nazione: in effetti, la domanda emancipatrice di nazione è stimolata da un movimento di ritorno alle origini nell’identità ancestrale, che si attua in reazione alla corrente planetaria di omogeneizzazione di civiltà, e questa domanda è intensificata dalla crisi generalizzata del futuro. Gli antagonismi fra nazioni, fra religioni, fra laicità e religione, fra modernità e tradizione, fra democrazia e dittatura, fra ricchi e poveri, fra Oriente e Occidente, fra Nord e Sud si nutrono a vicenda, e a ciò si mescolano gli interessi strategici ed economici antagonisti delle grandi potenze e delle multinazionali votate al profitto. Tutti questi antagonismi s’incontrano in zone che sono allo stesso tempo d’interferenza e di frattura, come la grande zona sismica del globo che parte dall’Armenia/Azerbaigian, attraversa il Medio Oriente e arriva fino al Sudan. Essi si esasperano là dove ci sono religioni ed etnie frammiste, frontiere arbitrarie fra stati, rivalità e ingiustizie di ogni tipo, come in Medio Oriente.

Così il XX secolo ha, nello stesso tempo, creato e frazionato un tessuto planetario unico; i suoi frammenti si sono isolati, irrigiditi, si sono combattuti fra loro. Gli Stati dominano la scena mondiale come titani brutali e ubriachi, potenti e impotenti. Nello stesso tempo, l’irruzione tecnico-industriale sul globo tende a sopprimere molte diversità umane, etniche, culturali. Lo stesso sviluppo ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti, e conduce alla crisi profonda di civiltà che affligge le società prospere d’Occidente.

Concepito in modo solo tecnico-economico, lo sviluppo a breve termine è insostenibile. Abbiamo bisogno di un concetto più ricco e complesso dello sviluppo, che sia nello stesso tempo materiale, intellettuale, affettivo, morale…

La civiltà nata in Occidente, mollando gli ormeggi con il passato, pensava di dirigersi verso il futuro di progresso all’infinito, grazie ai progressi congiunti della scienza, della ragione, della storia, dell’economia, della democrazia. Noi abbiamo compreso, con Hiroshima, che la scienza era ambivalente. Abbiamo visto la ragione storica e il delirio staliniano indossare la maschera della ragione storica; abbiamo visto che non c’erano leggi della storia a guidare irresistibilmente verso un avvenire radioso. Abbiamo visto che il trionfo della democrazia non era definitivamente assicurato in nessun posto. Abbiamo visto che lo sviluppo industriale poteva comportare devastazioni culturali e inquinamenti mortiferi. Abbiamo visto che la civiltà del benessere poteva produrre nello stesso tempo maschere. Se la modernità si definisce attraverso la fede incondizionata nel progresso, nella tecnica, e nella scienza, nello sviluppo economico, allora questa modernità è morta.

L’unione planetaria è l’esigenza razionale minima di un mondo ristretto e interdipendente. Tale unione ha bisogno di una coscienza e di un sentimento di reciproca appartenenza che ci leghi alla nostra Terra considerata come prima e ultima Patria. Se la nozione di patria comporta un’identità comune, nata da un rapporto di affiliazione affettiva a una sostanza nel contempo materna e paterna (insita nel termine femminile-maschile di patria), come comunità di destino, allora possiamo introdurre la nozione di Terra-Patria. Abbiamo tutti un’identità genetica, cerebrale, affettiva comune che attraversa le nostre diversità individuali, culturali, sociali. Siamo nati dallo sviluppo della vita di cui la Terra è stata matrice e nutrice. Infine, tutti gli esseri umani, dal XX secolo, vivono gli stessi problemi fondamentali di vita e di morte, e sono legati gli uni agli altri nella stessa comunità di destino planetario.

Così, dobbiamo imparare a “esserci” sul pianeta. Imparare a esserci significa: imparare a vivere, a condividere, a comunicare, a essere in comunione: è ciò che si imparava soltanto nelle e con le culture singolari. Abbiamo bisogno ormai di imparare a essere ,a vivere, a condividere, a comunicare, essere in comunione anche in quanto umani del pianeta Terra. Non dobbiamo più essere solo di una cultura, ma anche essere terrestri. Dobbiamo impegnarci non a dominare, ma a prenderci cura, migliorare, comprendere. Dobbiamo inscrivere in noi

  • la coscienza antropologica, che riconosce la nostra unità nella nostra diversità;
  • la coscienza ecologica, ossia la coscienza di abitare, con tutti gli esseri mortali, una sfera vivente (biosfera). Il conoscere il nostro legame consustanziale con la biosfera ci porta ad abbandonare il sogno prometeico del dominio dell’universo per alimentare, al contrario, l’aspirazione alla convivialità sulla Terra;
  • la coscienza civica terrestre, ossia la coscienza della responsabilità e della solidarietà per i figli della Terra;
  • la coscienza dialogica, che nasce dall’esercizio complesso del pensiero e che ci permette nel contempo di criticarci fra noi, di auto criticarci e di comprenderci gli uni gli altri.

Dobbiamo non più opporre l’universale alle patrie, bensì legare concentricamente le nostre patrie – familiari, regionali, nazionali, europee – e integrarle nell’universo concreto della patria terrestre. Non si deve più opporre un futuro radioso a un passato di servitù e di superstizione. Tutte le culture hanno le loro virtù, le loro esperienze, le loro saggezze e nello stesso tempo le loro carenze e le loro ignoranze. E’ ritrovando le origini nel passato che un gruppo umano trova l’energia per affrontare il suo presente e preparare il futuro. La ricerca di un avvenire migliore deve essere complementare e non più antagonista con il ritorno alle origini nel passato. Ogni essere umano, ogni collettività deve irrigare la propria vita con una circolazione incessante fra il passato, in cui radica la sua identità riallacciandosi ai propri ascendenti, il presente, in cui afferma i suoi bisogni, e un futuro nel quale proietta le sue aspirazioni e i suoi sforzi. In questo senso gli stati possono avere un ruolo decisivo, ma a condizione di accettare, nel loro stesso interesse, di abbandonare la sovranità assoluta su tutti i grandi problemi di comune utilità e soprattutto sui problemi di comune utilità e soprattutto sui problemi di vita o di morte che superano la loro competenza isolata. In ogni modo, l’era di fecondità degli Stati nazionali dotati di potere assoluto è compiuta, il che significa che occorre non disintegrarli, ma rispettarli integrandoli in insiemi e facendo loro rispettare l’insieme di cui fanno parte.

Il mondo confederato deve essere policentrico e acentrico non solo politicamente, ma anche culturalmente. L’Occidente che si provincializza sente in sé un bisogno di Oriente, mentre l’Oriente intende rimanere se stesso occidentalizzandosi. Il Nord ha sviluppato il calcolo e la tecnica, ma ha perduto la qualità della vita, mentre il Sud, tecnicamente arretrato, coltiva ancora le qualità della vita. Una dialogica deve ormai rendere complementari Oriente e Occidente, Nord e Sud. Si impone il doppio imperativo antropologico: salvare l’unità umana e salvare la diversità umana. Sviluppare le nostre identità nel contempo concentriche e plurali: quella della nostra etnia, quella della nostra patria, quella della nostra comunità di civiltà, quella infine di cittadini terrestri.

 

(estratto da: UNESCO, Enseigner l’identité terrienne, Morin E., Parigi, 1999)

___________________

  1. In un secolo, l’Europa è passata da 190 a 423 milioni di abitanti, il globo da 900 milioni a 3 miliardi.