di Mihaly Csikszentmihalyi

Neurosystemics n° 16/2020


Neurosystemics n° 16/2020

Il tema della felicità e dell’(in)utilità delle ricompense materiali per il suo raggiungimento è stato affrontato nel numero scorso di Neurosystemics, riprendendo la riflessione che Csikszentmihalyi ha fatto nel suo celebre articolo intitolato “Se siamo così ricchi, perché non siamo felici?” (Csikszentmihalyi, 1999). Proponiamo in questa sede, in una nostra traduzione,  un estratto della seconda parte di questo articolo, in cui l’autore approfondisce un aspetto particolare della felicità: l’esperienza di flusso.

Se l’idea corrente sul rapporto fra condizioni materiali e livello di felicità è sbagliata, allora che cos’è che conta davvero? L’alternativa all’approccio materialista è da sempre quella che oggi potremmo chiamare “soluzione psicologica”. Quest’approccio si basa sulla premessa che, se la felicità è uno stato mentale, allora si dovrebbe riuscire a controllare con strumenti cognitivi. Naturalmente, è anche possibile controllare la mente con i farmaci. Ogni cultura ha sviluppato droghe, dal peyote all’alcool all’eroina, nel tentativo di migliorare la qualità dell’esperienza attraverso un’azione chimica diretta. Secondo il parere di Csikszentmihalyi, tuttavia, il benessere indotto chimicamente manca di un ingrediente essenziale della felicità: sapere che siamo personalmente responsabili della sua realizzazione. La felicità non è qualcosa che capita ma qualcosa che si fa accadere.

La psicologia contemporanea ha elaborato diverse soluzioni, quello che le caratterizza tutte è l’assunto secondo cui tecniche cognitive, attribuzione di valori, atteggiamenti e stili percettivi possono modificare gli effetti delle condizioni materiali sulla coscienza, aiutare a ristrutturare i propri scopi e, così, migliorare la qualità dell’esperienza. L’auto-realizzazione di Maslow (1968, 1971), la relisienza dell’Io di  Block e Block (1980), l’emozionalità positiva di Diener (1984), l’approccio salutogenico di Antonovsky (1979), l’integrazione di personalità di Seeman (1996), l’autonomia di Deci e Ryan (1985), l’ottimismo disposizionale di Scheier e Carver (1985) e l’ottimismo appreso di Seligman (1991) sono solo alcuni fra i concetti teorici sviluppati, molti dei quali con applicazioni sul piano preventivo e terapeutico.

L’esperienza di flusso

Il contributo di Csikszentmihalyi, che si aggiunge alla lista degli approcci teorici allo studio della felicità è il concetto di esperienza autotelica, o di flusso, e quello di personalità autotelica. Il concetto di esperienza autotelica descrive un tipo particolare di esperienza talmente tanto piacevole e coinvolgente da diventare autotelica, cioè tale che vale la pena di farla per se stessa anche se può non avere alcuna conseguenza esterna. Le attività ricreative, la musica, lo sport, i giochi e i riti religiosi sono fonti tipiche di questo tipo di esperienza. Le personalità autoteliche sono quelle che hanno spesso tali esperienze di libero flusso, qualunque cosa si faccia.

Naturalmente, ciò che facciamo non è mai fine a se stesso. I motivi che ci spingono sono sempre un misto di considerazioni intrinseche ed estrinseche. Per esempio, un compositore può scrivere musica perché spera di venderla e pagare i propri debiti, perché vuol diventare famoso, perché la sua immagine di sé dipende dal fatto di scrivere canzoni –tutti questi sono motivi estrinseci. Se il compositore è motivato solo da tali competenze esterne, allora perde ogni ingrediente essenziale: oltre a questi vantaggi esteriori potrebbe anche godere dell’attività creativa in se stessa –in questo caso l’esperienza creativa diventerebbe autotelica. Le ricerche di Csikszentmihalyi (Csikszentmihalyi, 1975, 1996, 1997) indicano che la felicità dipende dal fatto che una persona riesce a provare da ciò che fa, qualunque cosa sia, l’esperienza del libero flusso.

Una breve estrapolazione da una delle oltre 10.000 interviste raccolte in tutto il mondo nel corso delle ricerche condotte dall’autore, può dare un’idea di come sia l’esperienza di flusso. Un musicista, nel descrivere cosa prova quando il lavoro di composizione procede bene, ha affermato:

Sei in uno stato a tal punto estatico che ti pare quasi di non esistere. L’ho provato tante volte. La mia mano sembra svuotata da me stesso ed io non ho nulla a che fare con quello che succede. Sto lì a guardare in uno stato di stupore e meraviglia e la musica fluisce per suo conto” (Csikszentmihalyi, 1975, pag.44).

Questa risposta è tipica della maggior parte delle descrizioni che le persone forniscono riguardo a come si sentono quando sono totalmente coinvolte in qualcosa di piacevole e significativo per loro. In primo luogo, l’esperienza è definita “estatica”: in altre parole, come se fosse in qualche modo separata dalla routine quotidiana. Questa sensazione di essere trascinati in una realtà diversa può scaturire da stimoli che provengono dall’ambiente esterno, come quando si partecipa ad un evento sportivo, ad una cerimonia religiosa, ad un concerto, oppure può essere prodotta internamente, concentrando l’attenzione su un insieme di stimoli dotati di regole proprie, come la composizione musicale.

Il compositore aggiunge, inoltre, che “ti pare di non esistere”. Questa dimensione dell’esperienza fa riferimento al fatto che l’attività è così coinvolgente da non lasciare alcun residuo di attenzione da dedicare a qualunque stimolo irrilevante rispetto al compito in corso.

Il compositore in esempio parla anche di provare una particolare spontaneità dell’esperienza: La mia mano sembra svuotata di me stesso… non ho nulla a che fare con quello che succede”. Chiaramente, questa impressione di assenza di sforzo è possibile solo perché gli aspetti tecnici sono stati assimilati ed esercitati al punto da esser diventati automatici. Ciò induce uno dei paradossi dell’esperienza di flusso: per provarla si deve avere un controllo assoluto dell’attività e tuttavia non si deve cercare di controllare consapevolmente ciò che si sta facendo.

Quando si hanno le condizioni giuste, l’azione “fluisce per conto suo”. È proprio perché tanti intervistati hanno usato l’analogia di un fluire spontaneo e privo di sforzo per descrivere ciò che provavano nei momenti di produttività più felice, che l’autore ha adottato il termine di flusso per indicare l’esperienza autotelica.

Questo tipo di esperienza intensa non si limita alle attività ricreative. La descrivono adolescenti che amano lo studio, lavoratori cui piace il proprio mestiere, automobilisti che si divertono a guidare.

Ci sono alcune caratteristiche comuni a tutte le esperienze di questo genere. In primo luogo, si sa molto chiaramente che cosa si deve fare momento per momento, o perché l’attività lo esige (come quando lo spartito prescrive le note da suonare), o perché ad ogni passo ci si pone una meta chiara (come quando lo scalatore decide qual è il prossimo appiglio). In secondo luogo, si riesce ad avere un feedback immediato su ciò che si sta facendo. Anche qui ciò può avvenire perché l’attività stessa informa subito sull’esecuzione (come quando a tennis dopo ogni colpo si sa subito se la palla è andata dove si voleva), oppure perché la persona ha a disposizione un metro interiorizzato che gli permette di valutare se le azioni sono adeguate (come quando il poeta legge l’ultima parola dell’ultima frase che ha messo sulla carta e giudica se è giusta o va riveduta).

Un’altra caratteristica universale dell’esperienza di flusso è che il soggetto sente che fra le proprie capacità e le opportunità di azione c’è una corrispondenza precisa: se la sfida è troppo grande per i suoi mezzi, proverà ansia, se invece la sfida è troppo facile, proverà noia. Quando c’è equilibrio fra le capacità e la sfida da affrontare, ecco che avviene un pieno coinvolgimento che può portare la persona a provare l’esperienza del libero flusso (Csikszentmihalyi, 1975, 1997).

Anche da una sintesi così condensata risulterà chiaro che questa esperienza non ha niente a che vedere con lo stereotipo culturale di “seguire il flusso della corrente”, che significa abbandonarsi ad una situazione che sembra buona, naturale e spontanea. L’esperienza autotelica del libero fluire dell’attività è qualcosa che richiede attitudini, concentrazione e perseveranza.

La relazione fra questa esperienza e la felicità non è del tutto ovvia. A rigor di logica, mentre sperimentano il flusso, le persone non sono necessariamente felici in quanto troppo prese dall’attività per permettersi il lusso di riflettere sul proprio stato soggettivo: provare felicità sarebbe una distrazione, un’interruzione del flusso libero e continuo. Ma dopo, una volta conclusa l’esperienza, riferiscono di essersi sentiti felici come non mai. Le personalità autoteliche si trovano spesso in tali situazioni, dichiarano nel complesso un maggior numero di momenti di felicità e sentono che la propria vita è più ricca di senso e dotata di uno scopo (Adlai-Gail, 1994; Hekner, 1996).

La gente è felice non per quello che fa ma per come lo fa. Chi riesce a provare l’esperienza di flusso lavorando in una catena di montaggio ha buone probabilità di essere felice, mentre chi non la prova in una vacanza di lusso difficilmente lo sarà. Lo stesso vale per le varie tecniche psicologiche proposte nel corso del tempo per realizzare uno stato positivo di salute mentale: se il processo per conquistare elasticità o autoefficacia è vissuto come un esercizio noioso o un’imposizione esterna, è poco probabile che porti alla felicità anche se padroneggiato alla lettera. Bisogna padroneggiare la salute mentale per trarne beneficio.

Come rendere possibile il flusso

Il prerequisito della felicità è la capacità di coinvolgersi completamente nella vita. Se le condizioni materiali sono abbondanti, tanto meglio, ma la mancanza di denaro o di salute non impedisce di provare l’esperienza del libero flusso in qualunque circostanza si presenti.

Nello stesso tempo sarebbe un errore pensare che ognuno vada lasciato a se stesso, che trovi godimento dove può, e rinunciare agli sforzi per migliorare le condizioni collettive. Sono tante le cose che si possono fare per introdurre maggiori occasioni per suscitare l’esperienza autotelica nella scuola, in famiglia, nell’organizzazione della vita collettiva, nel lavoro, nei trasporti, nel modo di mangiare – per farla breve, in quasi ogni aspetto dell’esperienza quotidiana. Creare condizioni che rendano possibili le esperienze di libero flusso è un aspetto di quel “perseguimento della felicità” che sarebbe fra i compiti della comunità politica e sociale.

Ciononostante, il flusso da solo non garantisce una vita felice. È anche importante che lo si possa trovare in attività complesse, cioè in attività che forniscano un potenziale di crescita nell’intero arco di vita, che permettano l’emergere di nuove opportunità di azione e stimolino lo sviluppo di competenze nuove. Una persona che non impara mai a godere della compagnia degli altri e che trova scarse occasioni in un contesto sociale significativo, difficilmente raggiungerà l’armonia interiore (Csikszentmihalyi, 1993; Csikszentmihalyi e Rathunde, 1998, Inghilleri, 1999), ma quando l’esperienza del libero fluire nasce dall’attivo impegno fisico, mentale o emotivo, dal lavoro, dallo sport, da un hobby, dalla meditazione, dalle relazioni interpersonali, allora le probabilità di una vita ricca e felice aumenteranno.

Limiti del flusso

Rimane almeno un altro tema importante da considerare. Ripassando i precedenti filosofici del materialismo, Csikszentmihalyi ha ripreso il monito di Locke sull’usare prudenza nel perseguire la felicità e sull’importanza di distinguere fra felicità reale e immaginaria. Avvertenze simili si applicano anche all’esperienza di flusso? In realtà il flusso è necessario ma non sufficiente al raggiungimento della felicità. Questo perché tale esperienza si può avere anche in attività che sul momento risultano piacevoli, ma che compromettono le possibilità di godimento duraturo.

Un’altra limitazione del flusso come via maestra della felicità è che una persona può imparare a godere talmente tanto di una singola attività che tutto il resto impallidisce al confronto: si finisce così per dipendere da un repertorio di opportunità molto ristretto, trascurando di sviluppare competenze che aprirebbero in seguito un campo molto più vasto di gratificazioni.

L’impatto negativo che una dipendenza esclusiva dall’esperienza di flusso ha sull’ambiente sociale è però meno grave di quello di una dipendenza dalle ricompense materiali. Le ricompense materiali sono a somma zero: essere ricco significa che altri devono essere poveri, essere famoso significa che altri devono essere anonimi, essere potente significa che altri devono essere privi di potere. Se tutti si sforzano di ottenere queste ricompense autolimitanti, è normale che la maggioranza rimanga frustrata, producendo infelicità personale e instabilità sociale. Al contrario, le ricompense del libero flusso sono cumulative e inesauribili: se la mia gioia la trovo in cucina, nello snowboard o nel fare l’allenatore di una squadra di ragazzi, ciò non va a scapito della felicità di nessuno.

Il guaio è che troppe istituzioni hanno interesse nel far credere alla gente che acquistare la macchina giusta, le bibite giuste, il giusto orologio o la giusta istruzione accresca le proprie probabilità di essere felice, anche se ciò vorrebbe dire ipotecare la propria esistenza. Di fatto le società sono di solito strutturate in modo che la maggioranza sia indotta a credere che il proprio benessere dipenda dal fatto di essere passiva e soddisfatta. Che il comando sia nelle mani del clero, della casta dei guerrieri, dei mercanti o dei finanzieri, l’interesse è che il resto della popolazione dipenda dalle ricompense che chi detiene il potere ha da offrire, sia che si tratti della vita eterna, della sicurezza o del benessere materiale. Se una persona confida nel consumo passivo (di prodotti, idee o droghe psicotrope) è molto probabile che rimanga deluso. Tuttavia la propaganda materialista è abile e convincente nel far credere il contrario.

Non è facile, specie per i giovani, distinguere ciò che è davvero nel proprio interesse da quello che, a lungo andare, non potrà che nuocere. È per questo che John Locke ammoniva a non confondere la felicità immaginaria con la vera felicità e Platone, 25 secoli fa, scriveva che il compito più urgente degli educatori è insegnare ai giovani a trovare piacere nelle cose giuste. Ora questo compito poggia in parte sulle nostre spalle. Il ruolo professionale di psicologi, educatori, politici e di chiunque, ad ogni livello della società, assuma il ruolo di leader, dovrebbe includere la volontà di scoprire che cosa favorisce la felicità, l’impegno a rendere consapevole il pubblico di questa conoscenza e l’obiettivo del loro lavoro dovrebbe essere quello di favorire il perseguimento della felicità (quella vera) per il maggior numero di persone.