di Marco Rotondi

Neurosystemics n° 9/2017


Il cammino dell’empowerment

Con il termine empowerment viene indicato un processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento della stima di sé e dell’autodeterminazione e capace di far emergere risorse latenti portando progressivamente l’individuo o il team ad appropriarsi consapevolmente del proprio potenziale. Dentro ogni persona (ed anche in ogni gruppo), infatti, ci sono molti talenti nascosti e portarli alla luce è un processo lento ed importante: si tratta di farli scoprire, accettare, sviluppare e soprattutto portare a compimento.

Questo processo porta ad un rovesciamento della percezione dei propri limiti in vista del raggiungimento di risultati superiori alle proprie aspettative. L’empowerment secondo Zimmerman (2000)*  è un costrutto che si articola in tre aree:

  • empowerment individuale (della persona)
  • empowerment organizzativo (della persona nel contesto di una azienda, o del posto di lavoro)
  • empowerment sociale (della persona nell’ambito della società).

Questi tre livelli sono strettamente interconnessi fra loro, infatti ed è difficile poter pensare all’empowerment personale in modo a sé stante senza ricondurlo al contesto ed all’ambiente in cui la persona stessa opera ed è immersa.

 

Miti moderni che contrastano la crescita delle persone

Nella più recente fase storica della nostra società, si sono venute a creare alcune barriere che ostacolano e rendono difficoltoso l’empowerment delle persone. Ne ricordo alcune.

Una di queste è il mito della tecnologia. Certo la tecnologia ci offre un grosso aiuto nella vita di tutti i giorni, però spesso ci dimentichiamo che porta con sé anche delle ricadute negative come ad esempio:

  • l’aumento della diffusione del bisogno individuale di un eccessivo controllo su tutto,
  • la costipazione del canale generativo-creativo (tutto è già stato predisposto e “pensato”)
  • la diminuzione delle capacità relazionali delle persone in quanto la comunicazione è “virtuale” e prevalentemente mediata.

Inoltre l’eccessivo uso delle tecnologie porta spesso con sé anche una diminuzione della “visione” e delle capacità strategiche di scegliere la strada più opportuna: ci si abitua troppo velocemente ad usare solo una capacità deterministica di problem solving (esiste una soluzione sola, già costruita da qualcun altro ed io la devo solo individuare) inibendo le capacità generative necessarie per creare altre possibili strategie o addirittura per sapersi costruire una strada nuova quando non ce ne siano altre già disponibili per noi.

Un’altra barriera della cultura contemporanea allo sviluppo della persona è il mito del successo che spinge al massimo la competitività in ogni contesto (scuola, università, lavoro, società..); questa spesso è vista come unico stimolo  possibile per aumentare la produttività, ma ciò può essere vero solo per quanto riguarda la quantità non per la qualità o per la realizzazione dei lavori che piacciono; infatti la competitività eccessiva delle nostre società produce una forte pressione all’adeguamento, alla normalizzazione delle persone (sono pochi e già determinati i fattori su cui si compete). La pressione ad adeguarsi alla voce comune, agli standard, alle procedure sempre più dilaganti, ad essere come vogliono gli altri (e non come si è veramente), porta presto a non cercare, e quindi non scoprire, il grande potenziale che ognuno ha dentro di sé ma che è diverso da quello degli altri. Inoltre questa forte spinta alla competitività è senz’altro da annoverare fra le principali cause che recentemente hanno portato ad un significativo aumento della depressione e del numero dei suicidi nei giovani.

Un terzo ostacolo al potenziamento della persona è spesso il mito degli artefatti umani in cui siamo immersi e che portano inevitabilmente ad una separazione tra l’uomo e la natura; la vita nelle metropoli fra grattacieli e metropolitane ci induce a considerarci come elementi separati da tutti e da tutto dimenticandoci di quanto siano importanti l’aria, l’acqua, la terra, il cielo, il sole e di come questi elementi vitali siano gli stessi per tutti; è molto interessante a tal proposito rileggere il diario** di un capo villaggio delle Isole Samoa in viaggio in Europa agli inizi del XX secolo e ascoltare come egli vedeva le nostre case e le nostre città:

“Il Papalagi (così lui chiamava l’uomo europeo, n.d.r) vive in un guscio solido come una conchiglia marina. Vive fra le pietre come la scolopendra fra le fessure della lava. Le pietre sono tutt’intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un cassone di pietra messo in piedi.

…La maggior parte delle capanne sono abitate da più persone e ogni famiglia ha per sé una parte speciale della cassa di pietra o sopra o sotto o più avanti. E una famiglia spesso non sa nulla delle altre, nulla di nulla, come se fra loro non ci fossero solo pareti di pietra, ma molti mari. Spesso sanno appena il loro nome, e quando s’incontrano nel buco da cui si entra si fanno solo di malavoglia un cenno di saluto o si borbottano dietro come insetti ostili. Come se fossero infastiditi di vivere l’uno accanto all’altro.

…Un samoano morirebbe ben presto soffocato in questi cassoni, perché qui non passa mai un soffio d’aria fresca come in qualsiasi capanna delle Samoa. E anche gli odori della cucina cercano una via d’uscita. Spesso però anche l’aria che viene da fuori non è migliore; e si fatica a capire come una creatura qui non debba morire, come per la nostalgia dell’aria non diventi un uccello, come non gli crescano le ali per potersi levare in volo e andarsene dove c’è aria e sole.

…Alcuni hanno il desiderio di boschi e di sole e di molta luce, ma questa in generale e considerata una malattia che bisogna combattere dentro di sé. Quando qualcuno non è soddisfatto di questa vita di pietra, si usa dire che non è normale.

…Questi cassoni di pietra si trovano spesso molto numerosi l’uno accanto all’altro, come uomini spalla a spalla, e in ciascuno vivono tanti Papalagi quanti ce ne sono in un villaggio delle Samoa

…I cassoni di pietra in cui vivono tante persone, le alte fessure di pietra che corrono su e giù come mille fiumi, gli uomini che vi camminano dentro, le grida, il rumore, la sabbia nera e il fumo sopra ogni cosa, senza un albero, senza cielo azzurro, senza aria pulita e senza nuvole, tutto questo è ciò che il Papalagi chiama una città. Una sua creazione di cui va molto fiero. Sebbene qui vivano tante persone che non hanno mai visto faccia a faccia un albero, mai un bosco, mai il cielo aperto, mai il Grande Spirito.”

 

Un percorso per superare gli ostacoli

Per poter sviluppare il nostro empowerment personale e facilitare quello degli altri occorre allora impegnarsi per non rimanere congelati, bloccati da queste “barriere di contrasto” che ci circondano silenziosamente, ma prenderle anzi come stimolo per andare oltre; in questo ci può aiutare un allenamento giornaliero che ci faccia lavorare su sette filoni.

  • Riprendere il pensiero autonomo “critico”: è importantissimo esaminare il nostro pensiero, monitorarlo e chiederci “è veramente nostro questo pensiero? a me va effettivamente bene così?” Il senso critico è la base per cercare se stessi, generare la propria innovatività, salvaguardare la propria differenza e per non pensare i pensieri già pensati degli altri.
  • Ricercare e scoprire cose nuove, che ci piacciono, senza ripetere le cose che piacciono agli altri, oppure le cose che abbiamo sempre fatto e che conosciamo bene; andare alla ricerca di nuovi aspetti, nuovi temi, nuovi territori; fare ogni giorno qualcosa di nuovo, che non abbiamo mai fatto; nella formazione outdoor, si dice “uscire dalla comfort zone“, intesa questa come quell’insieme di azioni e attività che si conoscono bene, talmente bene che non abbiamo più dubbi su come muoverci e agiamo con sicurezza.
  • Sviluppare la capacità di  analizzare la complessità che ha come precondizione l’accettazione della complessità stessa; la vita non è complicata, è complessa, ma non possiamo ridurla a schemi banali solo perché non siamo capaci di comprenderla appieno; certo però possiamo usare delle semplificazioni che ci consentono di affrontare di volta in volta alcuni aspetti separatamente ma senza dimenticarci mai che nella realtà è tutto collegato, interdipendente e complesso.

rotondi_santiago2006 - 29

  • Riscoprire il gusto dell’apprendere. Purtroppo la pressione del successo, della prova, dell’esame, ci fa perdere il piacere dell’apprendere, del cammino; ma apprendere ogni giorno è l’unica competenza sicura per il futuro; sul cammino di Santiago sta scritto da secoli scolpito nella pietra un ammonimento preciso “pellegrino non affrettarti, la tua meta è il cammino” ricordiamocelo!
  • Accettare il cambiamento come stato ordinario e non momentaneo di funzionamento; noi siamo cambiamento, il cambiamento è fisiologicamente dentro di noi; in noi non c’è più una sola cellula (se non quelle del cervello) che ci fosse già stata tre anni fa.
  • Non dimenticare la corporeità: ricordarsi che siamo in un corpo, nella natura; siamo incarnati e l’apprendimento, il cambiamento, la scoperta passano attraverso la fisicità, la mediazione del nostro corpo che quindi dobbiamo curare ed allenare per tenere sempre sveglio e attento.
  • Rispettare l’ecologia globale: non solo lasciare gli spazi fisici meglio di come li abbiamo trovati, ma anche gli spazi sociali, culturali, gli spazi relazionali; il nostro passaggio su questa terra è a termine, è un “contratto a tempo determinato” anche se spesso ce ne dimentichiamo; allora, invece che ricercare in tutto le sicurezze del “sempre”, dovremmo forse imparare a navigare le incertezze del “tutto” ed a vivere meglio il nostro “qui e ora” abitando meglio nel “qui e ora” degli altri; la domanda da porci quindi non è tanto “cosa posso ottenere per sempre?” ma piuttosto “che traccia voglio lasciare del mio passaggio?”

 

 

 

* Zimmerman M.A, 2000, Empowement Theory. Psychological,Organizational and Community Levels of Analysis, in  Rappaport J., Seidman E., Handbook of Community Psychology, New York: Kluwer Academic/Plenum Publishers

** Tuiavii di Tiavea, 1920, (a cura di) Scheurmann E., Papalagi, discorsi del capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa, trad. it. 1994, (a cura di) Baraghini M., Ed. Millelire, Viterbo.