di Antonella Furlan[1][2]

Neurosystemics n° 20/2022

Il Patto per l’innovazione sociale del lavoro pubblico e la coesione sociale, del 10 marzo 2021, tenuto conto anche degli importanti servizi pubblici che hanno contribuito al superamento della fase di emergenza da COVID 19, afferma un importante riconoscimento: “Il nostro Paese riparte dalle donne e dagli uomini della Pubblica Amministrazione, nello Stato, nelle Regioni e negli Enti locali, nel sistema della Conoscenza e nella Sanità e nelle agenzie pubbliche, dalla capacità di affrontare con le migliori competenze professionali e qualità umane tutte le sfide, sempre al servizio di comunità, cittadini e imprese”. Nello spirito di tale Patto e delle successive iniziative di riforma adottate dal Ministro per la Pubblica amministrazione, finanziate in primis sul PNRR, viene “rimessa al centro” la Pubblica Amministrazione quale “motore di sviluppo” e il personale pubblico quale capitale umano da valorizzare e risorsa imprescindibile. “Le conoscenze e le competenze delle persone (ri)tornano ad essere il principale asset (intangibile) delle amministrazioni pubbliche. Viene ribadito – e reso ulteriormente esplicito, ove ve ne fosse ancora la necessità – il “nesso di causalità” tra le risorse umane, da un lato, e gli obiettivi di cambiamento e i processi di innovazione delle amministrazioni, dall’altro. Questi ultimi, infatti, per avere una chance di successo dal punto di vista implementativo, non possono prescindere dalle conoscenze e dall’adesione attiva dei portatori di interesse che ne sono attori e destinatari, a partire proprio dal personale delle amministrazioni”[3].

Non solo si punta ad una valorizzazione dei dipendenti pubblici ma ci si aspetta un cambiamento sostanziale nel loro livello di coinvolgimento e di protagonismo. Viene richiesta l’assunzione di un ruolo “(pro)attivo”. “Coerentemente con una chiara finalità di “empowerment” dei dipendenti pubblici, vari sono i riferimenti alla necessità di una “partecipazione attiva delle lavoratrici e dei lavoratori”, alla possibilità che ciascun lavoratore possa “davvero fare la differenza”, al “sentirsi protagonisti del cambiamento”. Empowerment attraverso il quale “passa” anche una nuova “valorizzazione dell’immagine sociale dello Stato e dei suoi lavoratori e lavoratrici”. Tali riferimenti rappresentano sia una importante novità per i dipendenti delle amministrazioni, spesso demotivati, sia una promessa di cambiamento culturale indispensabile per un positivo (e costruttivo) inserimento delle nuove generazioni di dipendenti pubblici”[4].

Questa nuova visione dei dipendenti pubblici quali persone responsabili del proprio lavoro, dello sviluppo delle proprie competenze e della propria professionalità, quali persone propositive e proattive, segna un elemento di novità rispetto al passato. Una novità indotta dalla necessità di poter agire – anche nella realtà pubblica – con maggiori livelli di flessibilità[5]. Disporre di personale preparato e motivato, che condivide il senso dell’azione pubblica e dei suoi obiettivi ultimi, può consentire proprio quella gestione flessibile e per obiettivi che il lavoro in modalità agile ha iniziato ad introdurre.

Di fronte ad un cambiamento così significativo del modo di vedere il “personale pubblico”, i tre milioni e duecentomila dipendenti pubblici, sarebbe irrealistico pensare che non insorgano delle resistenze.

Tratteggiando uno stereotipo di “impiegato pubblico” con una anzianità ultradecennale nella PA, possiamo rilevare, accanto alle difficoltà derivanti da oltre un decennio di scarsi investimenti in formazione e aggiornamento professionale, il suo “adattamento” a contesti lavorativi che possono definirsi prevalentemente “statici”, caratterizzati dallo svolgimento di attività lavorative routinarie, spesso parcellizzate e che non consentono una visione “dell’intero processo” in cui il contributo dato (il “tassello”) si inserisce.

Per non parlare della difficoltà di essere propositivi e di assumere iniziative all’interno di contesti fortemente connotati dalla cultura dell’osservanza della norma e della procedura, dall’evitamento dell’errore[6] e della sperimentazione. Contesti caratterizzati, inoltre, da una forte differenziazione tra ruoli deputati a pensare e decidere e ruoli più esecutivi (ruoli in cui le persone si sono abituate all’impossibilità di influire sulla propria crescita professionale, come anche a “visuali lavorative” circoscritte ai singoli “tasselli” richiesti).

E’ probabile che lo stereotipo di impiegato pubblico con anzianità ultradecennale guardi con forte scetticismo agli obiettivi di cambiamento, di valorizzazione e di empowerment del “capitale umano” narrati dalle iniziative di riforma.

Peraltro, l’aspettativa auspicata dal processo di riforma di stimolare l’empowerment del personale pubblico, nei casi in cui sarà soddisfatta, comporterà dei cambiamenti anche nei rapporti tra capi e collaboratori. Nel momento in cui dovessero diffondersi, all’interno delle organizzazioni, i valori che favoriscono una cultura di empowerment – una cultura che dà importanza al possedere informazioni attendibili, alla competenza (posseduta e da sviluppare), all’assunzione di responsabilità personali e al controllo dell’efficacia delle proprie azioni/decisioni – è inevitabile che i dirigenti saranno chiamati a modificare le proprie modalità gestionali nei confronti dei propri collaboratori. Esercizio della delega, capacità di motivare, gestione dei feedback, gestione del conflitto (per citarne alcune): sono tante le competenze nuove che dovranno essere più diffuse tra i dirigenti per operare in contesti dinamici e nei quali tutti i collaboratori sono chiamati ad operare secondo un approccio proattivo, responsabile e per obiettivi.

Come per l’introduzione dei cambiamenti organizzativi all’interno delle realtà private, anche nel pubblico è fortemente necessario che il commitment dei vertici sia declinato a tutti i livelli della scala gerarchica e che i dirigenti stessi anticipino con il loro esempio il cambiamento auspicato.

Per superare le inevitabili resistenze al cambiamento, le iniziative di riforma promosse con il governo Draghi e finanziate con le risorse del PNRR sono intervenute su più variabili organizzative della Pubblica Amministrazione, cercando di rendere il più possibile coerente e sistemico il processo di cambiamento.

Come noto un’organizzazione rappresenta un sistema composto da più fattori chiamati ad interagire in modo coerente tra loro. Secondo il modello delle “7 S” – presentato nel 1981 da Richard Tanner Pascale e Anthony Athos nel loro libro dal titolo: “The Art of Japanese Management”, ripreso nel 1982 nel libro “In Search of Excellence” di Tom Peters e Robert Waterman ed adottato da McKinsey, come strumento di riferimento per l’analisi organizzativa – i fattori che caratterizzano una organizzazione sono 7 e la loro armonizzazione influenza i livelli di efficacia e di competitività della stessa.

Di seguito si riporta la rappresentazione di questi fattori.

Le riforme della PA avviate con l’agenda politica del governo Draghi stanno intervenendo su vari di questi fattori:

  • “Strategia” (Strategy) – il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale evidenzia gli obiettivi di riforma perseguiti: ruolo della Pubblica Amministrazione quale “motore di sviluppo”, semplificazione dei processi, valorizzazione e investimento nel capitale umano. Tali obiettivi sono stati poi oggetto di articolazione sia all’interno del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato all’UE, sia all’interno dei successivi atti adottati dal Ministro per la Pubblica Amministrazione (vedasi innanzitutto il Piano strategico per la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano).
  • “Sistemi” (Systems) – si pensi agli investimenti per l’adozione di sistemi informativi integrati di gestione quali, innanzitutto, il Piano integrato di attività e di organizzazione (PIAO), volto a semplificare e integrare i vari processi e momenti di pianificazione che interessano le Amministrazioni; e, inoltre, gli interventi per la semplificazione e digitalizzazione di procedure e processi;
  • “Risorse umane” (Staff) – gli interventi in questo ambito sono particolarmente articolati, andando dalle nuove regole e strumenti (INPA) previsti per le assunzioni e il reclutamento, all’introduzione di percorsi di mobilità verticale (v. introduzione della nuova area di inquadramento per le “elevate professionalità” e la possibilità di accesso alla categoria di inquadramento superiore sulla base di selezioni basate sulla valutazione dei risultati conseguiti nel percorso lavorativo); alla incentivazione della mobilità orizzontale e, ultimo ma non meno importante, all’utilizzo esteso della formazione destinata all’intera popolazione dei dipendenti pubblici;
  • Competenze (Skills) – si pensi alla riprogettazione del sistema dei profili professionali, in un inedito modello articolato per conoscenze, competenze e capacità caratteristiche della posizione da ricoprire, come anche all’individuazione dei gap di competenze esistenti da soddisfare mediante interventi formativi mirati;
  • Valori (Shared values) – i valori, le assunzioni tacite che permeano un’organizzazione o parti della stessa, sono posti al centro di tutto il sistema di fattori. A tal riguardo, accanto ai valori da sempre perseguiti e oggetto dei codici di comportamento dei dipendenti pubblici – volti a garantire il buon andamento e l’imparzialità della P.A. come anche ad assicurare la maggiore efficienza ed efficacia dell’azione pubblica – sembrano aggiungersi quello della “valorizzazione del capitale umano”, declinato sia in termini di “attrazione dei migliori talenti” che in termini di “empowerment delle persone”.

La coerenza delle linee di intervento avviate per la Pubblica Amministrazione favorisce la costruzione di un contesto organizzativo pubblico più coerente e armonioso nei suoi elementi, capace di rispondere in modo più flessibile ed efficiente alle esigenze di servizi provenienti dalle imprese e dai cittadini.

Tuttavia, quanto sinteticamente tratteggiato rappresenta le linee direttrici dell’azione riformatrice avviata che, per la sua portata ambiziosa, richiede una prospettiva pluriennale anche solo per poter essere conclusa nei suoi aspetti implementativi.

Solo la coerenza tra quanto “scritto” (in norme, codici etici, piani strategici e operativi), quanto “agito” (dalla dirigenza) e quanto “riflesso operativamente” (nelle logiche sottostanti i sistemi gestionali, premianti e valutativi come anche nelle opportunità di formazione, di mobilità orizzontale e verticale), potrà convincere quella cospicua fetta di dipendenti pubblici sfiduciati riguardo la possibilità di un reale cambiamento.

Solo questa coerenza potrà attirare tanti neo-assunti e consentir loro di trovare un contesto in cui apportare il proprio contributo e le proprie energie senza il rischio che la voglia di fare e le competenze possedute vengano gradualmente soffocate.

Di fronte alla definizione di una nuova agenda politica dovuta al prossimo cambiamento di governo, si può solo auspicare che le strategie di cambiamento e gli step implementativi pensati per la valorizzazione del lavoro pubblico e per una maggiore flessibilità di quell’apparato pubblico, tristemente definito nei decenni scorsi come “macchina burocratica”, non siano oggetto di ripensamenti e disfacimenti.

[1] Funzionario del Ministero della Giustizia in comando presso il Dipartimento della Funzione Pubblica – Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[2] Le opinioni espresse nel presente elaborato sono quelle dell’autore e non dell’Amministrazione presso la quale è prestato servizio.

[3] Angeletti Sauro, “Capitale umano e formazione al centro delle politiche di riforma della pubblica amministrazione”, in CNEL, Relazione 2021 al Parlamento e al Governo sui livelli e la qualità dei servizi offerti dalle Pubbliche Amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini (ai sensi dell’articolo 10 bis della legge 936/1986), 2022 – in corso di pubblicazione.

[4] Ibidem.

[5] Il Patto individua nella “flessibilità” la chiave perché le amministrazioni diventino capaci di adattarsi a contesti in veloce evoluzione: “Le Pubbliche Amministrazioni, così come le imprese, vivono in un contesto di grande turbolenza, con scenari molto complessi che evolvono rapidamente. Perciò non servono tanto nuove leggi, quanto la capacità di adattarsi a scenari estremamente mutevoli con flessibilità. Una flessibilità che riguarda tre variabili: lavoro (gestione delle risorse umane), organizzazione e tecnologia. Tutto ciò è possibile valorizzando le lavoratrici e i lavoratori della Pubblica Amministrazione. Flessibilità organizzativa vuol dire avere una organizzazione duttile, capace di adattarsi alle esigenze dei cittadini e delle imprese con rapidità. Però è proprio la rapidità di azione uno dei problemi principali del malfunzionamento delle Amministrazioni”, Presidenza del Consiglio dei ministri, Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, Roma, 10 gennaio 2021, pag. 4.

[6] Non si può non citare, nell’ambito delle Linee programmatiche dell’azione del Ministro per la Pubblica Amministrazione, presentate il 9 marzo 2021 al Parlamento, l’impegno a creare condizioni per una più diffusa assunzione di “responsabilità”: non solo “dare alle persone nuove e più forti competenze per consentirgli di fare sempre di più e meglio, ma allo stesso tempo vogliamo rimuovere quegli ostacoli che impediscono loro di fare”. Si parla di intervenire su quei meccanismi, anche normativi che inducono i “pubblici funzionari a non fare, piuttosto che ad agire”, v. Ministro per la pubblica amministrazione, Linee programmatiche. Il nostro contributo in vista del PNRR, op. cit., pag. 24.