di Marco Rotondi

Neurosystemics© n° 13/2019


Per alcuni manager è stato il momento più delicato che hanno dovuto affrontare, per altri l’impegno che hanno sempre rimandato a tempi migliori, per altri ancora il momento della verità, quello in cui si vede se si è veramente capaci (o se si è stati solo fortunati), per alcuni rappresenta un ostacolo improvviso che sbarra la strada felice che si stava percorrendo, per altri una sfida stimolante da dover superare, per altri infine rappresenta il nocciolo stesso del proprio lavoro, lo scopo vero dell’esistenza del proprio ruolo, fino a far dire che: “non ci può essere un leader senza un cambiamento da realizzare”.

Una cosa, comunque, è molto probabile: un manager lungo il proprio percorso professionale, prima o poi, lo incontra e allora le strategie di risposta sono le più disparate:

  • una sana improvvisazione (in fin dei conti nessuno ci ha mai insegnato come si affronta un cambiamento),
  • l’imitazione di processi di cui abbiamo sentito parlare (in convegni, seminari, riviste, libri, film),
  • la ripetizione di pratiche che abbiamo visto applicate (da un nostro capo, da un nostro collega di successo o da un conoscente che stimiamo),
  • l’applicazione ortodossa di tecniche studiate in libri specializzati o apprese partecipando a corsi di change management.

L’incontro col cambiamento è comunque sempre un capitolo importante del proprio diario di manager e della propria vita. Nei vari workshop sul change management, che abbiamo condotto, il cambiamento viene spesso rappresentato come una barriera che si para davanti a noi, o come dei grandi pesi da dover trasportare, o un salto da fare nel buio, o il lasciarsi trasportare dalla corrente, o ancora come una battaglia continua da sostenere, una lotta senza quartiere da portare avanti, o un nuovo modello, una nuova cultura da “inculcare” nella testa delle persone, o come delle resistenze o dei conflitti da vincere. Tutte immagini molto evocative del processo di cambiamento, che ne rappresentano bene un lato; peccato che spesso rappresenta anche l’unico lato esplorato e preso in considerazione; ecco allora che può nascere un grosso limite nella possibilità di affrontare e guidare il cambiamento con successo. Raramente, infatti, questo incontro viene descritto anche come la scoperta di un qualcosa che non si comprende, come la necessità di cambiare il punto d’osservazione, o di provare un diverso linguaggio d’ascolto, o di modificare il proprio modo di affrontare le cose, le proprie modalità di relazionarsi con le persone, insomma come la necessità di cambiare prima sé stessi degli altri.

Il coraggio di cambiare per primi

La via larga, infatti, è sempre la più semplice e meno pericolosa da percorrere; meglio concentrarsi sugli altri, sull’organizzazione, sugli strumenti, sulle tecniche, in sintesi su tutti quegli elementi che, essendo esterni a noi, sono anche più governabili e meno minaccianti. La difficoltà che la maggior parte di noi deve fronteggiare sta nel fatto che non abbiamo l’intenzione di comprendere; temiamo infatti che, se davvero comprendessimo, ciò potrebbe produrre un effetto rivoluzionario sulla nostra vita, e per questo resistiamo.(1). La radice dell’etimologia della parola leader o leadership fa riferimento al significato più antico del verbo to lead, cioè “andare per primo”. E questa rappresenta bene anche l’essenza della fonte della credibilità per un buon capo: avviarsi per primo per quella strada che vorremmo che tutti gli altri, poi, percorressero. Gli altri, i “follower” (i seguaci o meglio quelli che seguono), guardano proprio a questo; ormai delusi, disillusi, resi cinici dai troppi capi che li hanno coscientemente ingannati, divenuti freddi per i troppi “armiamoci e partite” o “avete perso, ho vinto”, si sono fatti molto più attenti, molto più circospetti, molto più diffidenti per non restare, ancora una volta, imbrogliati(2); nonostante ciò, in fondo al loro cuore, resta un lumicino acceso, una fioca speranza di trovare, dopo tanti “falsi profeti”, un leader vero; e da questo lo distinguono: va per primo, fa prima su di sé  quelle esperienze che chiede, poi, agli altri di fare; allora la sua guida diventa sicura e le sue parole sono credibili. Quando si va a cavallo il momento più difficile è quando si deve fargli saltare un ostacolo; quando si guida un gruppo, o un organizzazione, il momento più delicato è quando si vuole produrre un cambiamento; è in questa occasione che si richiede una guida più sicura e credibile ed ogni incertezza viene svelata e amplificata.

Comprendere per cambiare

Per poter essere buoni leader del cambiamento occorre allora averlo affrontato per primi, averlo affrontato disarmati dalle proprie resistenze e assetati di comprensione, di voglia di approfondire, di andare sino in fondo in questo incontro, sapendo che probabilmente “non si sarà più come prima”, consapevoli che questo incontro potrà avere su di noi e la nostra vita un effetto rivoluzionario. La reale comprensione dei fatti e delle persone, infatti, porta spesso al superamento d’iniziali contraddizioni apparenti e quindi all’apertura di nuove strade. Il processo di reale comprensione è, per questo, una delle strade che richiede più coraggio e più creatività; è quindi una via difficile, una “via stretta”; per questo in genere poco percorsa. Più facile voler portare il mondo sulla propria vecchia strada che comprendere qual è la nuova via che occorre imboccare ora. Per questo occorre saper superare per primi molti luoghi comuni e cercare le risposte dove sembrano esserci solo problemi; perché la migliore risposta sovente è ben nascosta proprio dentro il proprio problema.

Costruirsi la squadra

Il tema della scelta e della costruzione della squadra per guidare un cambiamento è talmente importante che potremmo quasi dire che non è possibile realizzare alcun cambiamento in un’organizzazione, piccola o grande che sia, pubblica o privata, se non c’è una squadra che se ne prende carico. La costruzione del team rappresenta, allora, un passaggio obbligato che ogni capo deve saper affrontare; è un tema delicato, strettamente collegato alla propria modalità di intendere il ruolo di leader ed il processo di delega, ma anche subordinato alle proprie reali capacità comunicative e relazionali di saper ben “navigare” in un gruppo, di essere un “animale sociale” e socializzante, di creare vicinanze affettive ed emotive, di esser capace di sintonizzare caratteri e opinioni diversi, di conciliare interessi contrastanti, di trovare nuove visioni che possano comporre divergenze iniziali. Per guidare un cambiamento serve, quindi, avere accanto a capacità e tecniche hard (razionali, organizzative, cognitive, progettuali) anche un insieme collaudato di sensibilità soft (comunicative, relazionali, emotive, affettive). Per questo alcuni (anche grandi) capi, prendono spesso delle scorciatoie e preferiscono gestire i collaboratori nel faccia a faccia, nel “one to one”; non provano a fare un salto qualitativo ed a condurre tutti i collaboratori “insieme” per farne un team. Altri non si sentono all’altezza e scelgono tutte persone di basso profilo, persone che non creino preoccupazioni di gestione, che non “diano problemi”, degli “yesman”; pensano, infatti, che, avendo già tante cose da fare, non possono perdere altro tempo anche con la squadra; non capendo così che il team non è il problema ma la soluzione. Finché i problemi da risolvere, o le mete che ci poniamo, sono semplici e banali può andar tutto bene anche senza il team; in realtà, infatti, pensiamo di non avere alcun bisogno degli altri, di essere capaci di fare tutto da soli. I problemi di oggi, però, sia nella società che nelle aziende sono complessi e difficili, richiedono una molteplicità di saperi e una diversità di specializzazioni e professionalità da mettere in campo insieme; ecco perché il passaggio al team risulta quasi obbligato.

Il tema del controllo

Per questo alcuni capi quando arriva il cambiamento da realizzare, non potendo fare a meno del team,  costruiscono si una squadra ma in realtà potremmo dire che “la subiscono”;  vivono il momento dell’incontro come non piacevole o come un momento pericoloso e foriero di possibili scontri e perdite di potere; talvolta lavorano, allora, secondo l’antico adagio “divide et impera”, ricercando così il controllo della situazione.

Ma è il controllo l’elemento principale nella costruzione di una grande squadra vincente, un “dream team”?

Probabilmente no. Il tema vero, semmai, è riuscire a tirar fuori il meglio dalle persone, essere capace di mobilitarle e galvanizzarle verso gli obiettivi, fargli sentire che solo loro uniti possono fare la differenza fra la vittoria o il fallimento, fra un lavoro mediocre e un risultato indimenticabile, fra una prova scialba ed un evento insuperabile.

Per portare avanti una situazione pregressa consolidata, per mantenere lo “status quo”, forse si può anche fare a meno di un team, ma probabilmente si può anche fare a meno di un leader; se, invece, dobbiamo realizzare un cambiamento, se abbiamo davanti una grande impresa da dover realizzare, allora senza team non si va da nessuna parte. Ecco perché dicevamo non ci può essere cambiamento senza un change team.

Il fattore tempo

C’è poi il fattore tempo che non è certo secondario: quanto tempo abbiamo a disposizione presumibilmente per realizzare il cambiamento che vogliamo?

Quando il tempo è poco allora la situazione si complica e non abbiamo spazio sufficiente per formare le competenze tecniche che ci servono per poter risolvere con successo i problemi che abbiamo davanti; più i problemi sono complessi e difficili e minore il tempo a disposizione, maggiori devono essere le competenze che troviamo già disponibili nella nostra squadra; questo spesso non ci permette di poter porre attenzione ad altri parametri importanti come scegliere le persone in modo che gli stili di lavoro in team siano compatibili(3) o complementari(4) o semplicemente in base al possesso di solide competenze relazionali; spesso, quando abbiamo poco tempo, dobbiamo andare diretti sulle competenze tecniche scegliendo i migliori che ci sono, sapendo che non sarà facile gestire tutte “prime donne” insieme, tutti “rivali”, sapendo che sarà una grande sfida prima di tutto per noi.

Ma ai veri leader le sfide con sé stessi sono quelle che piacciono di più.

_______________________________

1. Krishnamurti J., La ricerca della felicità, RCS Libri, Milano, 1993.

2. Passerini W., Rotondi M., Che capo vuoi, Guerini e Associati, Milano, 2008.

3. Parker G.M., Il gioco di squadra e i suoi uomini, FrancoAngeli, Milano, 1992.

4. Margerison C., Mc Cann D., Team Management, Il Sole 24 ore, Milano, 1991.