di Marco Rotondi

Neurosystemics n° 6/2016

giugno 2016

Sempre più spesso ci sembra che esista un rapporto inversamente proporzionale fra relazioni e tecnologie, quasi fosse una sorta di polarità in cui ad un estremo ci sono le nuove tecnologie ed all’altro le relazioni interpersonali; forse ci stiamo troppo abituando a questo modello mentale che silenziosamente è penetrato in noi e vi si sta radicando come fosse un fatto ineluttabile; infatti mentre vediamo crescere in tutti (ma soprattutto nelle nuove generazioni) l’interesse e l’attenzione per le nuove tecnologie, parallelamente registriamo (come fosse normale) il parallelo decremento attentivo verso le relazioni di qualità con gli altri.

Chiarisco subito che per qualità relazionale non intendo quei rapporti superficiali di sopravvivenza sociale che ci consentono di avere relazioni (apparentemente) non conflittuali e reciprocamente utilitaristiche (salvo poi lamentarcene in altra sede), ma quei rapporti profondi e autentici, magari anche spigolosi o ruvidi, ma che ci consentono di poter essere noi stessi, schietti e sinceri per cui tutto quello che diciamo lo pensiamo veramente (comportamento da non confondere col “dire tutto quello che si pensa”). Così sembrano diminuire le occasioni per sviluppare e far crescere le relazioni di qualità.

Troviamo ormai normale camminare per strada guardando il telefonino, senza pensare che così facendo non ci accorgiamo né dell’ambiente che ci circonda né del vicino di casa che incrociamo ma non salutiamo e con cui, quindi, tanto meno ci fermiamo a parlare. Vengono allora da porsi almeno due domande: “perché avviene questo?” e “tutto ciò è inevitabile?” Proviamo a cercare qualche risposta.

Per prima cosa possiamo pensare che ciò avvenga per una limitazione della capacità di processamento del nostro cervello: non riusciamo a gestire due focus attentivi simultaneamente e allora la tecnologia, che arriva per prima (perché è sempre disponibile quando la cerchiamo), occupa l’unico posto disponibile.

Poi possiamo riflettere sul fatto che forse rimaniamo incapsulati dentro la rigidità del paradigma culturale del “o/o” e non riusciamo ancora a sostituirlo con quello ben più complesso ma stimolante del “e/e”. Da questo punto di vista i nuovi bimbi, nati digitali, sembrano facilitati ed a loro sembra più normale funzionare in modalità “multitasking”.

Se però cerchiamo di andare alla base del problema ci rendiamo conto che con l’avvento della tecnologia, delle ICT, abbiamo introdotto un “media” fra i due attori di un processo comunicativo relazionale e che la nostra attenzione si sta spostando progressivamente sempre di più da “l’altro” al mezzo che sta appunto “in mezzo” fra noi e l’altro[1].

Ecco che allora anche la nostra attenzione slitta progressivamente dallo scopo della nostra comunicazione (l’incontro con l’altro) allo strumento della nostra comunicazione. Ed anche la nostra relazione conseguentemente diventa spesso più strumentale: comunichiamo non tanto per mettere in comune con l’altro (come la parola “comunicazione” inizialmente significava), ma perché vogliamo che l’altro, dopo, faccia qualcosa; la nostra comunicazione è considerata efficace allora quando raggiunge l’obiettivo (il target); comunicare passa così da essere un processo d’incontro a diventare soprattutto uno strumento per produrre risultati.

Ne consegue, giustamente quindi, una grande attenzione al mezzo perché è esso che mi permetterà, se ben progettato e ben realizzato, di raggiungere i miei obiettivi strumentali: che l’altro faccia o non faccia qualcosa.

Allora ben venga la comunicazione “a distanza”, che sembra risultare più efficiente in quanto permette ad una persona di comunicare con più persone ed in diverse parti del mondo simultaneamente ed inoltre consente di essere realizzata nei diversi tempi giusti per ogni diverso interlocutore.

Alcune ricerche sul comportamento relazionale della nuova generazione dei Millennials[2] (classe 1980-2000) riferiscono come essi preferiscano spesso comunicare a distanza perché tale modalità consente loro di potersi esprimere in una condizione emozionalmente differita (se quello che dici mi agita, posso prendermi il tempo per far decantare le mie sensazioni) e protetta dalle conseguenze fisiche dei risultati delle proprie comunicazioni (posso dirti anche qualcosa di sgradevole: al massimo non mi risponderai interrompendo la nostra relazione).

Si può comprendere allora bene come, continuando con questo ragionamento, la relazione con l’altro possa diventare per molti un’inutile perdita di tempo e quindi qualcosa da evitare.

Oggi le nuove tecnologie consentono, infatti, di comunicare e raggiungere i propri obiettivi strumentali quasi senza investimento relazionale (siamo stati costretti a ricorrere agli emotions per colorarla un pochino). La tecnologia della comunicazione a distanza nata per avvicinare psicologicamente le persone che erano lontane fisicamente diventa invece un modo per rendere distanti psicologicamente le persone che sono vicine fisicamente; mandiamo infatti sempre più spesso mail a colleghi dell’ufficio accanto o della scrivania accanto; perché “si fa prima”. Certo si evita il coinvolgimento emotivo relazionale talvolta faticoso dell’incontro con l’altro diverso da me che è certo a volte stancante ma al tempo stesso arricchente e foriero di scoperte e di apprendimenti importanti proprio perché diversi da me, fuori dalla mia zona del conosciuto e del confort[3].

Allora risulta normale camminare guardando lo smartphone e non vedere il vicino, non porre attenzione nel guardare il prossimo o il cielo, ma leggere che tempo fa sul meteo. Potremmo allora rileggere la parabola del buon samaritano in chiave moderna: il buon samaritano era l’unico che scendeva da Gerusalemme senza lo smartphone! L’unico capace di vivere nel “qui e ora”.

Perchè solo nel qui e ora c’è autenticità e verità nell’uomo e nell’incontro con l’altro, e quindi ricchezza di contenuti, scoperta e creatività. Questo ci fa capire come la relazione con l’altro passi in realtà obbligatoriamente dalla relazione con noi stessi.

Allora la fuga dall’altro può essere semplicemente la rappresentazione esteriore della fuga da noi stessi; non sappiamo star bene con noi stessi; fuggo l’altro perché può rispecchiare la mia vuotezza, la mia paura del silenzio.

In questo quadro interpretativo, allora, le ICT possono diventare un alibi molto pericoloso; invece di avvicinare, allontanano da sé e dagli altri.

Risulta significativo che in una ricerca fatta all’Università di Genova[4] sui Millennials emerga che il 28% dei partecipanti abbia molti contatti su facebook ma pochi amici reali con cui poter parlare delle cose importanti.

Nella relazione con l’altro non ci sono scorciatoie; serve attenzione, interesse, cura; tutte cose time-consuming; cose forse faticose e impegnative sia per i singoli, sia per le organizzazioni, ma estremamente concrete e reali, come guardarsi dritto negli occhi.

Allora, se vogliamo che questa deriva dell’ICT non peggiori e anzi si possa aprire un nuovo scenario, dobbiamo agire lavorando per promuovere nelle nostre organizzazioni e nelle nostre società percorsi e attività per:

  1. riportare lo scopo della comunicazione all’incontro con la ricchezza dell’altro, alla creazione di una relazione di qualità, relazione come investimento, apprendimento e non come perdita di tempo; occorre quindi autolimitarsi e diminuire i “dosaggi” di comunicazione strumentale “usa e getta”;
  2. aiutare i lavoratori, i dipendenti, i colleghi a incontrare se stessi, a star bene con se stessi, perché così facendo possano divenire capaci di sviluppare qualità relazionale con gli altri;
  3. utilizzare le ICT per avvicinare e non per allontanare le persone; oggi esistono tecnologie d’avanguardia che permettono per esempio di realizzare dei video-meeting virtuali in HD-3D e in dimensioni reali per cui, effettivamente, mi relaziono col mio collega, che sta dall’altra parte del mondo, come fosse veramente insieme a me in carne ed ossa;
  4. applicare o promuovere il diversity management nella propria organizzazione; realizzare percorsi formativi per sviluppare le competenze necessarie per generare qualità relazionale intorno a sé, gestire le diversities, facilitare il dialogo generazionale, progettare la trasmissione delle competenze fra i senior che vanno in pensione ed i giovani che arrivano, in modo da non sprecare il know-how e le conoscenze che la nostra umanità con tanta fatica ha accumulato.

Se riusciremo a promuovere nelle nostre organizzazioni programmi di questo tipo allora probabilmente avremo facilitato la creazione di relazioni di qualità intorno a noi e avremo reso un gran servizio non solo alla sopravvivenza della società civile in cui viviamo, ma anche alla stessa tecnologia e soprattutto alla Qualità della Vita[5] delle persone che vivono intorno a noi nelle nostre organizzazioni e nelle nostre comunità.

 

Note

[1] è forse utile ricordare a tal proposito che l’adozione della parola “media” da parte del mondo anglofono è dovuto all’assenza di una analoga parola inglese che significhi simultaneamente “strumento” e “intermedio” dovendo così ricorrere al plurale della parola latina medium

[2] per approfondire le informazioni sulla ricerca si veda: Society for Human Resource Management (SHRM), 2009, The multigenerational workforce: Opportunity for competitive success. Retrieved July 26

[3] per approfondire le informazioni sull’uscita dalla zona individuale di confort, sulla scoperta e sull’apprendimento dall’esperienza si veda: www.formazioneoutdoor.org

[4] per approfondire le informazioni sulla ricerca si veda: https://www.ienonline.org/ien/i-principali-valori-lavorativi-dei-millenniala-i-risultati-di-una-ricerca-alluniversita-di-genova/

[5] per approfondire le informazioni su Qualità della Vita e qualità del lavoro si veda: https://www.ienonline.org/ien/qualita-della-vita-qualita-del-lavoro-il-convegno-ien-2015/